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Di tasse si può anche morire. Soprattutto in Sicilia
di Carmelo Cutrufello | 27/01/2014 | ATTUALITÀ
di Carmelo Cutrufello | 27/01/2014 | ATTUALITÀ
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Verrebbe da dire: “L’avete voluto il federalismo?”. Vi ricordate la “riforma epocale” che avrebbe dovuto far ripartire i territori grazie all’autonomia impositiva ed al rapporto diretto tra eletto (che “sige” l’imposta) ed elettore (che la paga)? Ecco. Ad oggi, fatti i conti della serva, le imposte locali sono aumentate in media del 30%, ma la media si sa, è come il pollo di Trilussa, per cui succede che alcuni non hanno subito aggravi (al minimo ci sono Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Valle d'Aosta, Veneto e Trentino) mentre ai massimi, manco a dirlo, troviamo la “trinacria ridens”, la bella Sicilia. Mica è cosa di ieri però, attenzione. Sono calcoli che computano gli ultimi 5 anni e che prendono quindi l’ultimo Governo Cuffaro, quello del Lombardo catanese e infine il Crocetta I, quest’ultimo, un po’ a sorpresa, con una nota di insolita reattività ha evitato l’aumento dell’addizionale Irpef compensando il mancato incasso con un taglio netto alle spese regionali. URRA’!
Ma non è solo il livello regionale a preoccupare: la mazzata è arrivata sul capo dei cittadini grazie soprattutto all’aumento del costo dei servizi e delle imposte locali (mense, asili, assistenza domiciliare, ticket sanitario, acqua, IMU e la famigerata TARES).
Sul costo dei servizi non c’è poi molto da dire, essi infatti seguono, purtroppo, l’evolversi dell’inflazione reale. Se devi servire un pasto, quale che sia, saranno i prezzi del pollo o del manzo, delle utenze e il costo delle imposte a dettare gli aumento, non certo il personale, ché di incrementi di stipendi proprio non ne vede nemmeno col binocolo. Così l’amministrazione locale, proprio sui servizi, può fare poco, se non controllare la qualità, magari favorire il “chilometro zero” (come previsto da una recente nota dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura), ridurre al minimo i consumi di energia e il costo delle imposte sugli spazi che ospitano servizi pubblici come asili, biblioteche, scuole, etc. Questo potrebbe far diminuire un bel po’ le rette, ma è giusto ricordarlo, qualcun altro dovrebbe compensare il mancato gettito. Tranne che… tranne che non si facciano investimenti di lungo periodo, ovvero riduttori di consumo per l’acqua, impianti fotovoltaici per l’energia, non si crei un fondo in bilancio per compensare la riduzione del gettito per le imposte non più chieste a questi produttori di servizi pubblici essenziali. Troppa grazia.
Per quanto riguarda le imposte locali invece c’è da fare una premessa, alcune dipendono dal governo centrale che ne fissa limiti minimi e massimi (come l’IMU) altre invece sono una piena responsabilità dei nostri amministratori e il loro importo è tanto più alto quanto più sono incapaci questi ultimi.
Sull’Imu oramai c’è poco da dire, è morta. Ha dato il suo ultimo spasmo di vita con la “mini” costata anche ai proprietari della prima casa, ma dall’anno prossimo si chiamerà TARI e colpirà tutti. Senza distinzioni di sorta. Ma la TASI va di pari passo con la TARI, che invece è una tariffa e serve a compensare il costo del servizio di igiene pubblica. Insieme prendono un bel nome: IUC – Imposta unica comunali. Dicevamo della TARI, in vero qui non ci sono grandi sorprese: è l’IMU, solo un po’ diversa e, generalmente, meno cara (aliquota massima prima casa al 3,3 per mille, e aliquota massima sulla seconda casa all’11,4 per mille). Contro la TASI c’è poco da dire: è una patrimoniale (si paga in base al valore delle case), e ciò è buono, ci sono le detrazioni per i figli minori e servirà a finanziare i servizi indivisibili, cioè quelli offerti dai comuni alla generalità dei cittadini e che riguardano cioè l'illuminazione pubblica, la manutenzione di strade, del verde pubblico e vari servizi per la sicurezza. Una quota dell’importo, tra il 10 ed il 30% del totale sarà pagato dagli affittuari (se ci sono).
La TASI invece è la vecchia TARES, ma è molto, ma molto, più pesante. Già la TARES serviva a compensare l’intero costo del servizio di igiene urbana e così è oggi per la TASI. Cambia però la base impositiva per cui una parte sempre maggiore del gettito viene trasferito dalle famiglie alle imprese. Con la vecchia TARES infatti i servizi ed il terziario avevano preso una gran batosta, con bar, ristoranti, ortofrutta e supermercati che avevano subito aumenti del 300%. Con la nuova TASI, adesso si prepara l’ecatombe: lo dice Confcommercio, a fronte di un'analisi sugli effetti delle maggiorazioni tariffarie per le imprese dei servizi e del terziario di mercato, effettuata su un campione di sei grandi regioni: Lombardia, Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia, Sicilia. Dall'analisi emerge, infatti, la pesante incidenza della Tari sulle attività economiche in questi settori con un incremento medio dei costi pari al 302%; per alcune tipologie commerciali, in particolare, gli aumenti saranno ancora più salati, come nel caso dei negozi di ortofrutta, pescherie, fiori e piante (+627%), delle discoteche (+568%), dei ristoranti e pizzerie (+548%) ed io aggiungerei anche dei bar. (fonte: Il Sole 24 Ore)
Dicevamo, l’analogia tra Tares e Tasi è totale, cambia solo il quantum. Il tributo è dovuto da chiunque possieda, occupi o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Negli immobili ad uso domestico si considera solo la superficie coperta. In linea di massima, la tassa è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base dei criteri determinati con il regolamento approvato dal comune. Per le unità immobiliari a destinazione ordinaria iscritte o iscrivibili nel catasto edilizio urbano, la superficie assoggettabile al tributo è pari all’80% della superficie catastale determinata secondo i criteri del DPR n. 138/98. (Art.14, co.9). Gli importi pagati coprono quindi sia la gestione viva del servizio sia i costi di investimento in impianti ed altre infrastrutture.
Poteri dei comuni
Nella modulazione della tariffa sono assicurate riduzioni per la raccolta differenziata riferibile alle utenze domestiche. Alla tariffa è applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero. Il consiglio comunale può deliberare ulteriori riduzioni ed esenzioni. Il Comune, con regolamento, può deliberare circostanze attenuanti od esimenti nel rispetto dei principi della normativa statale. Il comma 659 prevede la facoltà per il singolo comune di deliberare delle riduzioni ed esenzioni nel caso di: a) abitazioni con unico occupante;
b) abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale od altro uso limitato e discontinuo;
c) locali, diversi dalle abitazioni, ed aree scoperte adibiti ad uso stagionale o ad uso non continuativo, ma ricorrente;
d) abitazioni occupate da soggetti che risiedano o abbiano la dimora, per più di sei mesi all'anno, all'estero;
e) fabbricati rurali ad uso abitativo.
Unico vincolo per il comune è mantenere costante il valore complessivo del prelievo affinché venga completamente coperto il costo del servizio.
Sperando di non avervi annoiato troppo, vediamo in breve perché si paga tanto. Facciamo solo un attimo un passo indietro: la TARI si paga in base a quanto costa il servizio. Chi decide quanto costa il servizio? La risposta è semplice: l’Ato. Gli Ato sono ambiti territoriali ottimali, società consortili formate dagli stessi comuni che protestano per gli importi richiesti e che ne eleggono il Consiglio di Amministrazione. L’Ato eroga i servizi necessari per mantenere l’igiene pubblica, assume personale, paga esperti, ect. Come sono esplosi i costi dell’Ato? Facciamo uno sforzo di memoria: quando si trattò di trasferire all’Ato il personale che già si occupava di raccolta nei comuni, non tutti lo fecero. L’Ato ha poi speso tantissimo per acquistare gli impianti e le aree di stoccaggio, pagando tutto con i soldi dei contribuenti. La politica nazionale ci ha messo del suo chiudendo le piccole discariche comunali ed imponendo il conferimento nelle enormi aree di Mazzarà Sant’Andrea (ME) e Motta Sant’Anastasia (CT). I comuni dal canto loro non hanno ridotto di un euro il costo del servizio, anzi: differenziata zero, impianti di compostaggio zero, recupero – riciclo e riuso zero. Quindi si paga due volte, la prima in termini di costo del servizio, la seconda in termini di mancato sviluppo, occupazione e investimento.
Può il comune fare qualcosa per ridurre il costo del servizio? Ovviamente si! Ma cosa? Il contributo che versiamo all’Ato si compone di tre grosse categorie: costi amministrativi, oneri derivanti dal servizio di discarica e servizi di igiene urbana. Gli oneri amministrativi, che pesano per un 3-5% in media, potrebbero essere azzerati portando la sede degli Aro in edifici pubblici e conferendo personale (già pagato dalle pubbliche amministrazioni) e non denaro. Gli oneri di discarica (che pesano per oltre il 35% della bolletta) potrebbero essere abbattuti in percentuale pari a quella della raccolta differenziata: ad esempio, se portassimo la differenziata al 60% come ad Aci Bonaccorsi (Ct), conferemmo in discarica il 60% in meno, risparmieremmo il 60% degli oneri pari al 12% dell’importo della bolletta, più il carburante, l’usura dei mezzi, etc. Inoltre potremmo vendere il prodotto differenziato ed incassare moneta sonante oppure, e ciò sarebbe l’ideale, per favorire la nascita della filiera del riciclo creando imprese che sfruttino questi materiali, occupazione, ricchezza e sviluppo. Solo così risparmieremmo una barcata di soldi e produrremmo un effetto positivo per il territorio. Per quanto riguarda l’igiene ambientale, questa componente di costo ha la sua massima espressione nel personale: utilizzando i dipendenti in carico agli enti locali potremmo quasi azzerare la voce.
La colpa di tutto è quindi nelle amministrazioni locali, molto spesso miopi, altrettanto spesso incapaci. In alcuni casi in evidente malafede.
Vi racconto una storia. Un bar della superficie di circa 150 mq pagava di Tarsu circa 800 euro l’anno (67 euro al mese). Nel 2013 con la TARES ne ha pagati 2.500 (208 euro al mese). Con la TARI ne pagherà 14.600 (1216 euro al mese). In pratica il titolare andrà in affitto dal Comune, al quale verserà il tributo. Occorre evitare questo salasso. Per farlo, l’unica soluzione è ridurre i costi del servizio al minimo indispensabile e… oltre. Al contrario ci sarà un’ecatombe di imprese. La chiusura di bar, ristoranti e pub può creare problemi serissimi al tessuto occupazionale locale perché è proprio là che si concentrano gli occupati più giovani e con più bassa scolarità. Si aprirebbe una ferita difficile da sanare. Occorre fare presto. Gli Ato Rifiuti sono stati prorogati fino a fine Aprile. Dopo, la responsabilità del servizio sarà interamente e direttamente a carico dei comuni. A quel punto i cittadini sapranno dove andare a bussare.