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Buongiorno Palestina - Khaled e l'inti"farsa" dei coltelli
di Matteo Arrigo | 20/03/2016 | ATTUALITÀ
di Matteo Arrigo | 20/03/2016 | ATTUALITÀ
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Star Hotel di Betlemme. In un cielo cupo rossastro, il sole è tramontato da poco sulla Basilica della Natività. Da quassù gli insediamenti intorno alle colline della città sembrano adesso dei piccoli graziosi presepi. Nella hall ci aspettano Khaled e suo fratello Nour, cristiani arabi di Palestina. Khaled è il più grande, coppola in testa, occhiali tondi. Sta per laurearsi in politiche internazionali e per adesso sta seguendo da vicino i restauri dei mosaici nella Basilica della Natività. Il padre dei due è stato braccio destro di Arafat: ora è un funzionario nella sede governativa di Ramallah. Chiediamo quale sia la situazione in questa nuova intifada dei coltelli, resta in silenzio un paio di secondi che sembrano minuti, poi risponde convinto: “I coltelli non esistono”. Racconta che ieri un palestinese è stato ucciso davanti ad un gruppo di turisti giapponesi al check point con Ramallah, aveva alzato solo il braccio e lo hanno freddato. Ci sono le foto diffuse sui social, si vede lui con il braccio alzato e un coltello impugnato in mano, solo che la sua ombra proiettata sul muro il coltello non lo mostra!
“Sono i soldati israeliani a fare comparire materialmente i coltelli una volta che il morto è lì pronto”, aggiunge. È quasi leggenda la storia di un ragazzo fermato in auto al check point, hanno perquisito lui e la macchina centimetro per centimetro, era totalmente pulito ed è stato lasciato andare. Ripartito, nel tragitto da un varco all’altro, ha scoperto sotto il sedile di guida un coltello, Era stato messo lì dai soldati israeliani, un tranello in cui sarebbe caduto al controllo successivo, fortunatamente scoperta l’arma l’ha buttata in campagna. Questa intifada ha causato 200 morti in quattro mesi, quasi tutti palestinesi. L’ultimo proprio ieri pomeriggio, quel ragazzo freddato ad Hebron sotto la moschea, mentre con un braccio indicava i soldati. Khaled ha la foto sul cellulare che gli ha inviato un suo amico, ce la mostra: “Avete intenzione di raggiungere Hebron in questi giorni? Io non lo consiglierei, non tanto per la visita alla città, ma per la strada”.
Il nostro pulmino ha una targa verde, targa palestinese, passare con quel mezzo in mezzo ai territori occupati può rappresentare un pericolo, i coloni spesso colpiscono i mezzi palestinesi tirando pietre. Se proprio vogliamo raggiungere Hebron, ci suggerisce di mettere attaccata al pulmino una bandiera italiana. Fra due giorni a Hebron ci dovrebbero essere i funerali del ragazzo ucciso, sempre che il corpo venga restituito subito. Perché sono più di cinquanta i corpi “dei martiri ancora in mano alle autorità israeliane”. In Palestina nemmeno i morti trovano pace. “Se sei un detenuto palestinese in un carcere israeliano, e per aggiunta disgrazia muori in carcere prima della fine della condanna, il corpo resta lì, in un’altra cella, quella frigorifera. Solo alla fine della condanna viene restituito per la sepoltura”. Da qualche tempo il governo israeliano ha cominciato a fare problemi anche ai volontari e gli attivisti, una ragazza italiana è rimasta bloccata in aeroporto due giorni prima di rientrare in Italia, solo perché era andata in Palestina ad aiutare gli “arabi”. Per il governo israeliano non ci sono palestinesi ma “arabi”. Io stesso all’arrivo all’ aeroporto di Tel Aviv ho subito il primo controllo appena uscito dal tunnel dell’aereo.
Mentre parliamo dei lavori di restauro alla Natività gli squilla il telefono, la suoneria è “Funiculì funiculà”. Sorride. Adesso deve tornare a casa:“Non volevo scoraggiarvi dall’andare a Hebron, ma qui ogni giorno succede qualcosa, a nord, a sud, coltelli, spari. Non dovete avere paura, ma questa è la realtà”.
Benvenuti in Palestina.