Sabato 23 Novembre 2024
Si conclude il racconto del viaggio in Palestina del videomaker messinese Matteo Arrigo


Buongiorno Palestina - No good morning, no good night

di Matteo Arrigo | 01/04/2016 | ATTUALITÀ

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(Foto Matteo Arrigo)

Pietre assolate e sterpaglie. “Vedete queste rovine, non è stato il tempo a ridurre le case così, sono state le bombe”. Ehab è originario di Soba, un cumulo di rovine ed erbacce, uno dei 492 villaggi arabi evacuati o scomparsi, dal 1948 ad oggi, per fare posto alle colonie israeliane.
L’ho conosciuto questa mattina alla Porta di Damasco, è arrivato con il fiatone. Era in ritardo all’appuntamento. Si è scusato: avrebbe potuto recuperare il ritardo correndo, ma a Gerusalemme anche correre può essere pericoloso. I soldati potrebbero insospettirsi e spararti.Heab lavorava con impegno e passione al museo ebraico di Gerusalemme, in piena condivisione con i suoi colleghi ebrei, ma un palestinese al museo ebraico non era una bella cartolina per il governo, e così è stato licenziato. Dalle stanze del museo è passato alle celle delle prigioni. Per ben tre volte. L’ ultima per avere pubblicato un video che racconta la situazione paradossale di una famiglia palestinese che fino a poco tempo fa viveva alla periferia di un villaggio nella cinta di Gerusalemme. La costruzione del muro li ha tagliati fuori dal villaggio che è rimasto in Cisgiordania, mentre la loro modesta casa si trova adesso “al di qua del muro”. Due figlie, costrette su una sedia a rotelle per una malattia genetica. Non possono spostarsi per andare a curarsi perché non hanno soldi a sufficienza. Non possono lasciare la casa perché i coloni gliela prenderebbero subito.
In Palestina fa molta differenza vivere “al di qua” o “al di là”. In questa terra fa molta differenza essere ebrei o palestinesi.La Palestina è una terra tolta a chi ci aveva da sempre abitato. Al posto dei villaggi sono sorte le colonie: cominciano con una roulotte e finiscono per diventare vere e proprie cittadine. Roccaforti israeliane circondate da filo spinato e presidiate dall’esercito. Abitazioni israeliane in una terra non loro.
La Palestina per i palestinesi è oggi un enorme carcere a cielo aperto.
Mentre vivo la mia ultima giornata a Gerusalemme, mentre cammino sulla strada dei tetti, ripenso ai visi e le parole di questi giorni. Ripenso alla prima volta che ho visto il muro, alle torrette di controllo, ai checkpoint, ai chilometri e chilometri di cemento. Rivedo le facce dei soldati e i fucili spianati mentre attraversiamo nel silenzio più irreale la zona occupata di Hebron. Rileggo gli occhi scavati di chi ci chiede aiuto.Le ginocchia sbucciate dei bambini nei campi profughi, i manifesti con le foto dei martiri, l’odore dei suq, le file ai tornelli dei controlli, i bambini disabili del campo di Aida, i copertoni bruciati sotto il muro di Kalandia, i ragazzi con le pietre pronte in mano per lanciarle al passaggio della camionetta israeliana, i giovani israeliani con il fucile in spalla per le strade di Gerusalemme.
Ho vissuto pochi giorni in una gabbia chiamata Palestina. Io fra poco andrò via, ma la gente che qui è nata resta. Perché non andarsene è l’unica resistenza.
“Io dico sempre ai miei coetanei di non andare al muro a tirare le pietre, ma di non abbandonare le proprie case”: Jaed, ragazzo di Betlemme.

Prima i coloni ci tiravano addosso le pietre e la spazzatura, ora abbiamo messo la rete di protezione e cosi ci tirano i loro escrementi”: Adab, rifugiato.
Questi bambini non hanno mai visto il mare perché sono nati nella West Bank, in territorio occupato, lo stesso posto in cui tra pochi mesi nascerà mio figlio”: Hamdan, disabile.
Non esistono angeli e diavoli in questo conflitto, nessuno è al di sopra di colpe, ma esiste la sofferenza di un popolo sottomesso”: Amin, ex detenuto.
Volevano occupare questo sito religioso, il pozzo di Giacobbe, non abbiamo ceduto, così il mio confratello è stato rapito. Me lo hanno riconsegnato in una scatola dietro la porta, in 36 pezzi”: Abuna Giustino, parroco a Nablus
Quella era la scuola dove andava mio padre, ora non ci possiamo andare più. Guarda sul tetto, ci sono i soldati”: Kaleb, bambino di Hebron.

La voce dei muezzin si rincorre da un minareto all’altro. Mentre guardo la fine di questo giorno sui tetti della città “tre volte santa” mi piego alla sofferenza di questo conflitto insensato. Mi faccio portavoce di milioni di rifugiati, le parole e la verità sono le uniche armi che noi possiamo usare per aiutarli. Un terra che sembra aver perso la speranza di parole semplici come “buongiorno” o “buonanotte”, come recita una scritta sul muro di un campo profughi. Comprendo la verità di una situazione che senza venire qui non avrei mai potuto capire, e capisco che questa è una terra crudele, una terra che a volte sembra non avere nemmeno un dio. Io in questo momento non riesco proprio a vederlo, sarà per la poca luce del crepuscolo, o per le lacrime che mi riempiono gli occhi.

 

Più informazioni: buongiorno palestina  


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