Leonardo Sciascia e il racconto di Savoca: "Attendono nel deserto la manna dei turisti"
di Redazione | 11/01/2021 | ATTUALITÀ
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Savoca tra gli Anni '50 e 60'
Nel centenario della nascita di Leonardo Sciascia, proponiamo un suo articolo incentrato su Savoca, intitolato “Ritratto di un paese che muore - Attendono nel deserto la manna dei turisti”, pubblicato sul quotidiano “Il Giorno” nell'edizione del 12 maggio 1962, dopo un breve soggiorno che il celebre scrittore di Racalmuto fece in paese. In quegli anni il borgo collinare versava in uno stato di abbandono. Ecco cosa trovò Sciascia. Il maresciallo duca di Vivonne, che comandava l’armata francese venuta a portar soccorso ai messinesi che si erano ribellati al dominio spagnolo, il 23 ottobre 1676, mandò a Sàvoca un cavaliere, accompagnato da un un tamburo, per imporre al paese di “concordare e rendere ubbidienza” a Luigi XIV. Sàvoca era allora terra popolosa, ricca, munitissima; avrebbe potuto resistere a lungo, provvista com’era di munizioni e di viveri; presidiata da soldatesche e da cittadini armati; e posta in “sito eminente precipitoso, che dall’istessa natura li è stato attribuito”. Ma preferì trattare la resa: una resa dignitosa e, per certi aspetti, privilegiata. L’atto di capitolazione, dopo trattative che durarono una decina di giorni, fu firmato al campo francese, davanti a Scaletta assediata, dal duca di Vivonne (che, ad insinuazione del conte d’Aubigné, fratello della Maintenon, doveva il bastone di maresciallo a sua sorella, la signora di Montespan), in nome di Sua Maestà Cristianissima, e da sette della famiglia Trischitta, e da altri magistrati (un Crisafulli da cui discende l’attuale giudice costituzionale, un Trimarchi antenato del deputato regionale), a rappresentanza della terra di Sàvoca. Un Trischitta è oggi l’uomo che più accanitamente si batte per portare Sàvoca a vita turistica: padre Anselmo Trischitta, priore del convento dei Cappuccini; un uomo tozzo, sanguigno, vivacissimo. Se i suoi antenati gli somigliavano, si capisce perché il duca di Vivonne sia stato così largo di concessioni verso la terra di Sàvoca. Voltaire racconta che alla domanda di Luigi XIV “A che giova leggere?” il duca abbia risposto: “La lettura è per lo spirito quel che le vostre pernici sono per le mie guance”. Probabilmente il duca, pur apprezzando i libri, stava per le pernici: e per quelle del re in particolare. E avrà simpatizzato con i sette Trischitta nutriti della buona caccia e dell’ottimo vino di Sàvoca. Così, dalla faccia di padre Anselmo, mentre nel refettorio cordialmente servono abbondanti piatti, siamo risaliti a Voltaire. Si divertirebbe il vecchio Voltaire a sentire da padre Anselmo la storia dei bachi che hanno intessuto un drappo di seta per la Madonna di Loreto che qui si venera: da soli, naturalmente; e in adempimento ad una promissione fatta dalla loro padrona e non assolta. E il drappo c’è ancora, in chiesa; con cartiglio che ne racconta la storia. Padre Anselmo ha sete di turisti: danesi, svedesi e tedeschi sono la manna che implora nel deserto di Sàvoca; il ricordo di una comitiva di trentacinque danesi accende di felicità i suoi occhi illanguiditi da un laboriosa digestione. Le vuote celle del convento sono pronte a ricevere turisti: su ogni porta, lungo il corridoio, si leggono versi come questi: “La vita fugge e si dilegua, ohi tasso! - Dalla culla alla tomba, è un breve passo”. “Solitudine cara! Or qui vogl’io - vincer l’inferno, il mondo e il senso rio”, che certo darebbero decadentistici brividi alle nordiche comitive. E intanto “il senso rio”, sotto forma dei problemi del refettorio e dell’impianto di un bagno e di una doccia, ha avuto da padre Anselmo qualche piccola concessione. Ma i turisti non arrivano. O, se arrivano, sono quelli che a Sàvoca fanno soltanto una puntata, preferendo al convento dei Cappuccini gli alberghi di Taormina e di Forza d’Agrò: paese, quest’ultimo, che in linea d’aria sembra distare da Sàvoca un tiro di schioppo; un tempo soggetto a Sàvoca e oggi, grazie anche ad un film di astrale cretineria che vi è stato girato, freneticamente invaso dai turisti. Del film girato a Forza d’Agrò parla anche padre Anselmo, che forse in vita sua non ha mai visto un film: e ritiene che ben altra suggestione avrebbe un film girato a Sàvoca. “Del resto, c’è il convento: potrebbe ospitare tutta la gente che venisse per girare il film”. Quello girato a Forza d’Agrò era interpretato da Angie Dickinson detta, se non ricordiamo male, “le gambe”. “Or qui vogl’io vincer l’inferno, il mondo e il senso rio”. Oltre al velo tessuto dai bachi, la chiesa del convento ha quadri notevoli e una cripta in cui i morti stanno, in piedi nelle nicchie, a far macabro carnevale: allineati nell’allucinante policromia dei loro vestiti di gala, il taffetà viola, l’amoerro paonazzo, la nera vigogna, i dorati rabeschi; al di là della pietra, al di là dell’orrore. I notabili di Sàvoca: essiccati, tarlati, grottescamente sospesi. “C’è un quadro di Antonello” dice padre Anselmo. “Antonello de Saliba” precisa l’amico che ci accompagna. “Era suo nipote, no?” ribatte padre Anselmo: un po’ piccato, evidentemente. Ma sono incerte e l’attribuzione del dipinto al de Saliba e la parentela di costui con Antonello: a voler sottilizzare, anzi, questa parentela pare sia esclusiva istituzione di padre Anselmo. Il quale ha fatto stampare riproduzioni del quadro con questa dicitura: “Quadro miracoloso della Madonna di Loreto. Opera pregevole di Antonello de Saliba del 1400. Meta crescente di turisti nazionali ed esteri. Ad opera del Rev. P. Anselmo Trischitta”. Altre cartoline, che si vendono nel convento, riproducono panorami e portali; e i morti allineati nelle nicchie della cripta; elemento che padre Anselmo ritiene essenziale della ragion turistica. Lo zelo di padre Anselmo non è eccessivamente apprezzato dal sindaco democristiano di Sàvoca. E, per sua parte, padre Anselmo non è un estimatore del sindaco: “Democristiano? Ma che democristiano...”. Il sindaco è un medico. È nato a Scaletta e risiede a Santa Teresa Riva. Non si capisce perché venga a fare il sindaco a Sàvoca, su e giù tra Sàvoca e Santa Teresa: una forte perdita di tempo e di denaro, per un medico. Forse c’è sotto un puntiglio, come qualcuno dice. O soltanto amore per questo luogo: un amore, per così dire, professionale. Per un paese che si spegne, che si disgrega. Per un paese colpito dalla necrosi in ogni fibra, in ogni cellula: quasi che quei morti allineati nella cripta dei Cappuccini avessero infettato della loro essenza, della loro rappresentazione, ogni pietra alzata dall’uomo. Da trent'anni a Sàvoca non si costruisce una casa. E di opere pubbliche, in questi anni in cui in Sicilia di opere pubbliche se ne sono fatte tante, forse non c’è stata che la riparazione della strada che da Santa Teresa sale al paese. I candidati al Parlamento e all’Assemblea Regionale vengono su a raccogliere un mezzo migliaio di voti: e poi si scordano di questo paese che pure non è facile dimenticare. Democratici e liberali: a Sàvoca non ci sono altri partiti. L’amministrazione è democristiana, l’opposizione liberale. Un paese che raggiunse, nel secolo del suo maggior splendore, i 5145 abitanti è ora ridotto, con tutte le sue frazioni, a circa un migliaio. Le cause di una tale decadenza sono in parte spiegabili dentro il più vasto fenomeno, relativo a quasi tutto il litorale della penisola italiana e delle isole, verificatosi dalla fine del secolo XVIII, quando la paura delle incursioni piratesche cominciò ad attenuarsi e le popolazioni, che si erano arroccate sui monti sovrastanti le coste, si spostarono verso il mare. Poi lungo il litorale si aprirono le vere e proprie strade di comunicazione. E poi la ferrovia. I paesi annidati sulle alture presso il mare o, nei fondovalle, da queste alture nascosti, riparati, schermati, cominciarono a morire: specialmente là dove le istituzioni religiose - vescovadi, seminari, particolari prelature - seguivano il naturale spostamento delle popolazioni verso il litorale o altrettanto naturalmente scomparivano. Sàvoca era sede di archimandrita, cui appartenevano ventiquattro dei quarantotto feudi che formavano il territorio del comune: ma già alla fine del Seicento l’archimandrita ne coglieva le rendite senza risiedervi, nonostante le proteste dei cittadini e del clero; protesta che trovò formale accoglimento nel duca di Vivonne, però senza conseguente effetto. E la situazione si sarà protratta fino alla soppressione della sede, non sappiamo esattamente in quale anno ma probabilmente quando di tutti i beni altro non era rimasto che il palazzo: oggi desolato e vuoto, è il caso di dire, come un teschio. Ma lo spostamento della popolazione verso il lido e la soppressione della sede vescovile spiegano fino a un certo punto la spaventosa decadenza di Sàvoca. La più diretta causa è da ricercare nella concessione dell’autonomia amministrativa ai villaggi sorti, in territorio di Sàvoca, lungo la strada carrozzabile Messina-Catania; e precisamente alla costituzione del Comune di Santa Teresa Riva, nel 1853. Provvedimento che il Governo di Torino ratificò, nonostante i ricorsi del Municipio di Sàvoca, nel 1861. “Più recentemente, nel 1928 - scrive Lucia Ricciardi nei “Quaderni di geografia umana per la Sicilia e la Calabria”, (II, 85) - il Governo di Roma, avendo considerato il grave e non rimediabile declino di Sàvoca e la scomparsa in essa di qualunque pure elementare vitalità economica, deliberò la eliminazione del Comune di Sàvoca e la sua incorporazione in quello di Santa Teresa. La soluzione era giusta. Ma nel 1948 le meschine ambizioni di qualche famiglia locale, che in quell’anno si giovò dei favori abitualmente congiunti con le elezioni politiche, furono così ascoltate da ottenere la ricostituzione del vecchio Comune di Sàvoca”. Così un paese una volta fiorente per l’industria della seta (fino al 1855 uno stabilimento lavorava per tutto l’anno e altri otto stagionalmente, dal 15 giugno alla fine di luglio), per la produzione di vino e di olio, di agrumi e di altra frutta, oggi è quasi deserto, in rovina. Ma intorno, quale splendido paesaggio! Il verde degli alberi, dell’erba, che da ogni parte si arrampica a soffocare il paese, a mimetizzarlo, ad assorbirlo: quasi che la natura, pazientemente, tenacemente, avesse assediato i bastioni, le case e le chiese di Sàvoca: subdolamente esplodendo di radici, di stami, di filamenti; fino a che, vittoriosa, all’uomo non consentì altra vita che quella dell’albero, del filo d’erba; o la fuga. E più che il paese, la sua rovina, nella bellezza di cui è circondato, è l’uomo a impressionarci: la sua assorta immobilità, il suo silenzio. Gettando un’occhiata nelle case, lo scoprirle abitate è una sorpresa: la gente vi si muove come in un mondo al di là della parola, in una superstite e ormai atrofica umanità. Persino i bambini. E le nostre voci, mentre andiamo su e giù per le strade del paese e ci fermiamo ad ammirare portali, rosoni, bifore - e il paesaggio ad ogni svolta diverso, per cui si dice che Sàvoca ha sette facce - suonano sperse, irreali. La vita del paese, la vita tenace ed incongrua che ancora racchiude, è legata all’agricoltura. Il livello è uguale per tutti: non manca il necessario, non si cerca il superfluo. Tre maestri elementari, un paio di impiegati, i carabinieri. Non c’è un professionista. Un solo prete, con tante chiese che ci sono. E i tre padri Cappuccini (ma, chi sa perché, padre Anselmo dice che sono due: il terzo, padre Basilio, studioso della storia di Sàvoca, forse perché immerso nelle sue vecchie carte, estraneo e lontano, è considerato da padre Anselmo assente). E dopotutto, padre Anselmo è l’uomo più vivo che ci sia a Sàvoca, il solo a credere nella ripresa del paese, a battersi per riportarlo alla vita. A una vita turistica: come nel secolo scorso a Taormina, che certo oggi si troverebbe nelle stesse condizioni di Sàvoca se il nome della città non avesse colpito la fantasia del barone Ottone Geleng al punto da fargli giurare che, tornando in Italia, sarebbe andato alla ricerca di Taormina; o come oggi, grazie a un dittico di Antonello da Messina, al film di Negulesco e alla sua incantevole posizione, Forza d’Agrò. E, in quanto a posizione, Sàvoca non ha niente da invidiare nemmeno a Taormina. Senza dire che, a forza di scavare, potrebbe venir fuori, come un po’ dovunque in Sicilia, il tempio greco o il petrolio. Ma meraviglia, anzi, che archeologi e “prospettori” non abbiano ancora toccato questo territorio. Gli archeologi forse non si fidano del Fazello; ma gli ingegneri potrebbero anche fidarsene. Dice il Fazello che il paese non manca “di miniere di varii metalli, né di cave di marmi macchiati; un fonte infine vi diffonde delle acque mescolate all’olio”. Nelle note di aggiornamento (1856) il Di Marzio precisa: “Contiene il suolo di Sàvoca petrolio, piombo, marcassita, antimonio nativo e ferro minaceo”. Il “minaceo” va forse letto “micaceo”: ché abbiamo avuto fra le mani pietre friabilissime dalle quali uscivano lucide, trasparenti lamine di mica. Di questo fonte che diffonde acque mescolate all’olio, nessuno ha memoria. Ma in Sicilia è più facile conservare memoria dei fenici che di un’acqua che sa di petrolio. Anche padre Anselmo punterebbe tutto sull’antica Pentefur o Pentefar, sul remoto e leggendario paese che fu poi Sàvoca, sulle ricerche archeologiche, sui morti nella cripta, sul quadro di Antonello (de Saliba), sull'incanto del paesaggio. Niente sul petrolio.