Depuratore di Nizza, sindaci e tecnici fecero il possibile: ecco perché sono stati assolti
di Andrea Rfatto | 01/08/2024 | CRONACA
di Andrea Rfatto | 01/08/2024 | CRONACA
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Il depuratore è utilizzato da Nizza, Alì Terme e Fiumedinisi
"Deve rilevarsi e ribadirsi come i sindaci, i dirigenti e lo stesso appaltatore e gestore abbiano realmente fatto tutto quanto era in loro potere e possibilità per quantomeno arginare un problema strutturale ed endemico e nessuna accentuata e colpevole inerzia operativa degli imputati, nelle rispettive qualità, risulterebbe emergere appieno dalle emergenze dibattimentali”. A quasi cinque mesi dalla sentenza d’appello che ha confermato sei assoluzioni e inflitto una condanna per la gestione del depuratore di Nizza di Sicilia, arrivano le motivazioni della Corte d’appello (presidente Francesco Tripodi, consiglieri Luana Lino e Carmine De Rose, quest’ultimo estensore) sull’operato degli ex sindaci Piero Briguglio (Nizza), Giuseppe Marino e Carlo Giaquinta (Alì Terme), dell’attuale sindaco di Fiumedinisi Giovanni De Luca e di due funzionari dell'Ufficio tecnico nizzardo, il geometra Rosario Porto (oggi in pensione) e il perito industriale Umberto Valerini, accusati di getto pericoloso di cose e violazione del Testo unico ambientale per il superamento dei limiti dei valori inquinanti. Unico condannato è stato Agatino Mantarro, titolare della ditta affidataria della gestione dell’impianto, con una pena (sospesa) di tre mesi e dieci giorni di arresto per gestione non autorizzata di rifiuti. Le motivazioni smontano il castello accusatorio a carico degli amministratori comunali e dei costruito dalla Procura, che coordinò l’inchiesta con la sostituta procuratrice Rosanna Casabona, e partono dall’assunto che “appaiono fuorvianti ed imprecisi i rilievi avanzati dal pubblico ministero sulle condotte esigibili dai soggetti coinvolti”. Secondo De Rose «l’appello avanzato dal pm va precipuamente rilevato come non colga nel segno, quanto alla ventilata sussistenza, in campo agli imputati, del reato di getto pericoloso di cose, avuto soprattutto riguardo alla concreta improfilabilità del correlato elemento psicologico, a carattere colposo, necessario alla sua configurazione, palesandosi chiara la concreta inesigibilità di altre condotte, del tutto scevre da profili di negligenza, superficialità o indolenza nel trattare il problema del depuratore, struttura obsoleta e necessitante di interventi di manutenzione straordinaria non solo esorbitanti dai poteri, dalle disponibilità finanziarie ed amministrative degli enti locali, ma anche di competenza di autorità terze (Regione siciliana) sia sotto il profilo dell’approvazione dei progetti che del reperimento delle risorse economiche” Per la Corte d’appello “le motivazioni addotte dall’appellante pm non appaiono affatto convincenti”, a partire dal fatto che “indicare quale elemento fondante della responsabilità degli imputati l'accertato malfunzionamento dei misuratori di portata significa non solo travisare le caratteristiche di funzionamento degli impianti, ma anche pretermettere del tutto e non cogliere le problematiche, collegate all’obsolescenza degli impianti e alle loro modalità di gestione, tangenti aree, competenze ed interessi certo non controllabili in alcun modo dagli imputati”. I misuratori di portata, infatti, non hanno alcuna inerenza con gli sversamenti di reflui inquinanti ma hanno la funzione di misurare la portata delle acque e i dei reflui contingentati al fine di ripartire i costi tra i tre Comuni. Secondo i giudici di secondo grado concentrarsi sulla sussistenza del reato di getto pericoloso di cose prescindendo da una assodata comprova di un danno all’ambiente e alla collettività effettivamente arrecato dagli sversamenti fuori limite è stata un’operazione solo formalmente ossequiosa dei principi giuridici, ma in concreto incapace di cogliere il problema su quali attività azioni, determinazioni amministrative e prese di posizione sul problema i sindaci e i dirigenti tecnici avrebbero potuto mettere in atto oltre quelle effettivamente intraprese ed accertate in dibattimento. “Non solo nessuna accentuata e colpevole inerzia operativa degli imputati, nelle rispettive qualità, risulterebbe emergere appieno dalle emergenze dibattimentali - evidenzia la Corte - ma già strutturalmente nessuna omissione rilevante, ricollegabile ad un esistente e prestrutturato obbligo giuridico e fattuale di provvedere ad evitare il getto pericoloso di cose è in concreto rilevabile in atti”. Tutti gli imputati, dunque, “hanno compiuto attività tese a limitare i danni e il malfunzionamento endemico degli impianti e si sono sempre attivati a sollecitare le autorità a compiere gli interventi necessari” e dunque “l’insussistenza di alcuna responsabilità attribuibile agli appellati è oltremodo più che palese, essendo del tutto inesigibile qualsivoglia altra condotta rispetto a quelle in atti comprovate”. Nelle difese sono stati impegnati gli avvocati Massimo Brigandì, Giovanni Calamoneri, Antonio Scarcella, Carmelo Lombardo, Giovanni Mannuccia, Giovambattista Freni e Felice Di Bartolo. Resta ancora aperto il secondo processo per il reato di omissione di atti d’ufficio, dopo che la Corte d’appello di Messina ha accolto la richiesta di impugnazione della Procura contro il proscioglimento deciso in udienza preliminare per i reati di abuso d’ufficio e omissione d’atti d’ufficio. Nel dicembre 2020 è stata infatti ribaltata in parte la sentenza emessa il 27 febbraio dello stesso anno dal Gup Monica Marino relativamente alle assoluzioni parziali ed è arrivato il rinvio a giudizio per quanti erano stati prosciolti con la formula “perché il fatto non sussiste”. La Corte d’appello aveva invece confermato nel resto la sentenza del Gup, che aveva prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio i tecnici Porto e Valerini e il gestore dell’impianto, Agatino Mantarro, così come Valerini era stato assolto dal reato di getto pericoloso di cose e violazioni ambientali (capi 9 e 10). Dal secondo processo, in davanti al Tribunale in composizione collegiale, è rimasto fuori solo l’ex gestore dell’impianto.