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L’omicidio di Riccardo Ravidà, trovate alcune tracce: regolamento di conti o vendetta?
di Andrea Rifatto | 28/07/2022 | CRONACA
di Andrea Rifatto | 28/07/2022 | CRONACA
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Il luogo dell'omicidio e la vittima
Chi ha ucciso Riccardo Ravidà conosceva bene le sue abitudini, i suoi orari, e sapeva che sarebbe passato da lì. Le indagini scattate nella tarda serata di martedì, dopo che l’allevatore 34enne non si è presentato nel carcere di Gazzi a Messina dove sta scontando una condanna in regime di semilibertà, non sembrano lasciare dubbi sul fatto che si tratti di un omicidio. Per quasi 24 ore gli inquirenti hanno lavorato sul luogo dove è stato ritrovato il cadavere dell’uomo, carbonizzato all’interno della sua autovettura, una Toyota Rav 4, rimasta tra le fiamme su una stradina in contrada Ferrera, in territorio di Alì. I carabinieri del Nucleo Operativo e del Nucleo Investigativo del Comando provinciale, supportati dai militari delle Stazioni di Fiumedinisi, Alì Terme e Roccalumera, hanno ispezionato a lungo la zona insieme al Ris e intorno al suv hanno repertato i resti di alcune cartucce di fucile, nella curva dove è rimasta a bruciare l’auto, tra le querce e i rovi. Probabile, dunque, che qualcuno abbia esploso alcuni colpi di arma da fuoco da distanza ravvicinata contro l’auto di Ravidà. Una vera e propria esecuzione. L’inchiesta viene condotta dal sostituto procuratore Giulia Falchi insieme all’aggiunto Vito Di Giorgio, che hanno ricevuto già una prima informativa dai Carabinieri. Il cadavere è stato posto sotto sequestro ed è stato affidato l’incarico per l’autopsia al medico legale Giovanni Andò: l’esame sui resti del 34enne, che sarà effettuato sabato, potrebbe dunque rivelare altri particolari importanti. Da un sopralluogo effettuato nella sua abitazione non è emerso invece nulla di rilevante. Le indagini si stanno concentrando sulle ultime ore della vittima e sui rapporti e i dissidi con altre persone, che potrebbero aver spinto qualcuno ad eliminarlo in un modo così brutale. Un regolamento di conti, magari tra pastori, o una vendetta: queste le ipotesi più accreditate. Chi era la vittima. Riccardo Ravidà, 34 anni, originario di Mandanici, sposato con tre figli, lavorava nell’azienda zootecnica dei fratelli Caminiti, dove era impiegata anche la consorte nel caseificio a Fiumedinisi. Attualmente era in regime di semilibertà e i carabinieri della Stazione di Alì Terme lo tenevano sistematicamente sotto controllo, affinché non sgarrasse e rispettasse le prescrizioni del giudice. Oltre al lavoro, badava anche agli animali di proprietà della madre, mentre gli altri due fratelli gestiscono una loro azienda a Mandanici. L’uomo era una vecchia conoscenza dell’Arma ed era stato arrestato il 31 gennaio 2020 durante un’operazione antibracconaggio condotta dai carabinieri delle Stazioni di Alì Terme e Fiumedinisi, insieme ai colleghi dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Sicilia, all’interno dell’area protetta della Riserva Naturale Orientata di Fiumedinisi, durante una battuta di caccia al cinghiale dove venne trovato con un fucile con matricola abrasa e canne mozzate, con altre nove persone due delle quali arrestate insieme a lui. Nei mesi scorsi era arrivata la condanna definitiva in Cassazione a tre anni di reclusione e 2.400 euro di multa per ricettazione e detenzione e porto abusivo di arma clandestina, che Ravidà aveva spiegato di aver trovato un anno prima dell'arresto e che, al momento in cui era stato sorpreso con essa, aveva prelevato da poco nella casa dove era collocata e nascosta dietro un cespuglio, per poi utilizzarla nella caccia al cinghiale.