Mercoledì 17 Aprile 2024
Gli imprenditori negano di aver pagato il pizzo, per gli inquirenti era la regola


"Mafia all'Isola Bella? Mai vista, fesserie". Ecco come si obbediva alla legge dei clan

di Andrea Rifatto | 23/06/2019 | CRONACA

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Imbarcazioni per le gite turistiche all'Isola Bella

“Ma che 20mila euro al giorno, dicono fesserie, non abbiamo mai visto e sentito niente, nessuna richiesta di denaro o intimidazioni”. Negano di aver pagato il pizzo ai clan mafiosi e minimizzano sugli incassi gli imprenditori che gestiscono le attività di noleggio barche per le escursioni turistiche all’Isola Bella di Taormina. Secondo la Guardia di Finanza e la Procura di Catania, che martedì hanno fatto scattare 31 arresti per associazione a delinquere, tutte le società erano vittime delle estorsioni messe in atto dai clan di Cosa nostra catanese Santapaola-Ercolano e Cappello-Cintorino, che si erano spartite le spiagge mettendo le mani sul redditizio business delle gite in barca. Ieri siamo stati all’Isola Bella a sentire i titolari delle attività, che smentiscono di essere stati estorti e dicono di non saperne nulla. Eppure i loro nomi compaiono negli atti dell’inchiesta su quanto accaduto nelle estati 2016 e 2017 e alcuni degli arrestati, tra cui nomi di spicco di Cosa nostra, devono rispondere dell’accusa di estorsione nei loro confronti aggravata dal metodo mafioso. Secondo le indagini sull’isola operavano Salvatore Leonardi detto “Turi do Mitogiu”, referente della famiglia Santapaola-Ercolano, che imponeva il pizzo alla Pizzichella Snc di Francesco Cacopardo e alla ditta di Salvatore Ruggeri, mentre Mario Pace, Sebastiano Trovato e Gaetano Di Bella del clan Cinturino-Cappello estorcevano le imprese dei fratelli Maurizio e Andrea Cacopardo. Tutto doveva essere deciso dai clan, da quando avviare le escursioni ai prezzi per i clienti. Un’inchiesta che nasce tra 2014 e 2015 su input di alcuni collaboratori di giustizia e che porta gli inquirenti ad attivare un sistema di videoripresa per monitorare l’Isola Bella, oltre a intercettazioni telefoniche e ambientali, con cimici sulle barche, sotto l’ombrellone utilizzato come punto d’incontro e negli angoli dove a fine giornata si spartivano i guadagni. L’1 giugno 2017 il trojan installato sul cellulare di Gaetano Di Bella capta l’incontro tra lui, Trovato e Leonardi, in cui si stabilisce di dividere in tre gli introiti delle escursioni: una parte al gruppo Cappello-Cintorino, un’altra al Santapaola-Ercolano e la terza riservata agli imprenditori. Per gli inquirenti vi era “un consistente spessore criminale mafioso degli interlocutori inseriti nelle rispettive consorterie e di carattere tipicamente mafioso nella gestione delle attività, con la preoccupazione di garantire il rispetto dell’equilibrio tra le compagini mafiose.

“Nelle imbarcazioni si sono i soldi, sono 60-65 mila euro al mese” si dicevano tra loro i clan, che controllavano al tal punto gli affari portando gli imprenditori a dover chiedere l’autorizzazione per poter avviare le attività, sintomo – secondo gli inquirenti – del controllo estorsivo che trovava espressione anche nell’imposizione di assumere persone di fiducia del gruppo mafioso. Tra gli obblighi agli imprenditori vi era quello di utilizzare un’unica barca nonostante ne possedessero altre e facessero presenti le difficoltà economiche subite nel tenerle ferme: “Ho tre barche, sto morendo dalla fame, te ne accorgi che non sto lavorando, come cazzo devo fare?” diceva uno di loro ai mafiosi, fermi nel far rispettare il patto. Anche per sostituire una barca che aveva subito un guasto bisognava avere il consenso del clan e ciò che colpisce gli inquirenti è “la reazione dei dipendenti delle stesse imprese che mostrano di ritenere la soluzione adottata, implicante la possibilità di sostituzione del natante danneggiato, come contraria alle regole imposte dai gruppo mafiosi relative all’utilizzo di una sola imbarcazione ad imprenditore e all’impossibilità di procacciare clienti potenziali nel lato di spiaggia opposto a quello di propria competenza”. Dunque una vera e propria convinzione dei dipendenti della “necessità” di adeguare i propri contegni e quelli degli imprenditori alle “regole” imposte dai gruppi criminali, “convinzione che pare sconfinare in un vero e proprio obbligo che consegna un quadro allarmante della penetrazione o meglio della permanente e incisività della presenza dei gruppi mafiosi nel contesto e nel tessuto economico e sociale”. Dunque vi era da parte delle imprese "piena soggezione all’azione criminosa di tipo estorsivo e l'adesione ai contenuti spartitori dell’accordo che parte dagli stessi dipendenti degli imprendotori assoggettati al pizzo che paradossalmente e incredibilmente ne pretendono il rispetto da parte di altri operatori economici".

I mafiosi facevano presente che la “protezione” sarebbe durata ancora a lungo, anche in caso di arresti, a condizione che le vittime si fossero assoggettate alle direttive. “Qua comando io” dicevano, mostrando un particolare l’attivismo nel procacciare i clienti per aiutare l’attività, “perché vi voglio bene e cerco di aiutarvi” diceva Di Bella. Ma per la Procura “le reali finalità dell’attivismo” dell’astuto Di Bella avrebbero dovuto essere ricercate nell’aspirazione a ottenere il massimo profitto dalle condotte estorsive poste in essere ai danni degli imprenditori”. “Dobbiamo essere uniti noi e io dopo vi dirò quello che dobbiamo fare ma per sempre, per tutta la vita anche se io poi sarà morto voi non avete… non dovete… avere più problemi con nessuno capisci?” diceva sempre Di Bella a uno degli imprenditori estorti. Forse anche per questo motivo i titolati delle attività taglieggiati hanno preferito non denunciare. E rimangono in silenzio.

Più informazioni: operazione isola bella  


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