Articoli correlati
Operazione "Nerone bis" a Forza d’Agrò, ecco tutte le accuse contestate ai sei arrestati
di Andrea Rifatto | 01/07/2022 | CRONACA
di Andrea Rifatto | 01/07/2022 | CRONACA
6121 Lettori unici
Ieri è scattata l'operazione dei Carabinieri
Alcuni componenti della gang di Forza d’Agrò sgominata ieri al culmine dell’indagine condotta dai Carabinieri della Compagnia di Taormina erano balzati agli onori della cronaca già nel 2013, in particolare Gabriele Pitasi e Giuseppe Macrì, quando vennero arrestati nel corso dell’operazione “Nerone” a conclusione di un’attività investigativa per alcuni episodi di danneggiamento a mezzo incendio di diverse autovetture, verificatisi nel centro collinare e nei comuni limitrofi. I metodi attuati nei mesi scorsi non sono cambiati, ma il gruppo si è spinto a colpire anche le Forze dell’ordine, fin quando è stato fermato con quella che può essere ribattezzata operazione “Nerone bis”. Nelle 138 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Ornella Pastore sono cristallizzate in quindici capi di imputazione tutte le specifiche accuse nei confronti dei sei arrestati la scorsa notte, ossia i i fratelli Gabriele e Davide Pitasi, 27 e 23 anni, rinchiusi nel carcere di Gazzi; Franca Bartolone, 53 anni, madre dei Pitasi; Giuseppe Macrì, 46 anni; Salvatore Lenzo, 32 anni, di Santa Teresa di Riva; Andrea Micali, 22 anni, di Forza d’Agrò ma residente a Savoca, ristretti ai domiciliari con divieto di comunicare con persone diverse dai conviventi. Lunedì partiranno gli interrogatori di garanzia. Danneggiamenti e incendi. I fratelli Pitasi e la Bartolone devono rispondere in concorso del reato di danneggiamento seguito da incendio, aggravato dall’aver agito in orario notturno, su strada pubblica e contro un pubblico ufficiale, per l’incendio dell’auto utilizzata dal figlio dell’allora responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, l’architetto Sebastiano Stracuzzi, una Dacia Sandero parcheggiata sotto casa in via Belvedere e bruciata la sera dell’1 dicembre 2020. Lo stesso reato viene contestato nuovamente ai Pitasi e a Macrì per un’altra vettura data alle fiamme, l’Alfa Romeo Giulietta del comandante della Stazione dei Carabinieri di Forza d’Agrò, il luogotenente Maurizio Zinna, parcheggiata davanti la caserma dell'Arma e incendiata la notte del 31 marzo 2021. Tentata estorsione, stalking, e spaccio. Gabriele e Davide Pitasi, con Giuseppe Macrì, sono stati arrestati anche con l’accusa di tentata estorsione al titolare dell’hotel e ristorante “Agostiniana” di Forza d’Agrò, Pippo Bondì, attuata secondo gli inquirenti con una bottiglietta di benzina posta sul parabrezza dell’autovettura di un dipendente addetto alla reception, accompagnata da un biglietto manoscritto contenente la richiesta di 65mila euro (X PIPPO BONDI’ PROCURA 65MILA € HO TROVATI GLI AMICI BUONI”), prospettandogli anche il pericolo che alcuni mezzi della sua impresa “Edilagrò”, di cui è titolare con la moglie, potessero essere incendiati. Madre e figli devono rispondere anche di stalking verso la famiglia Stracuzzi per aver minacciato e molestato continuamente i componenti del nucleo familiare, con messaggi e commenti sui social network, pedinamenti, incendi delle autovetture e aggressioni, tra cui una compiuta il 29 agosto 2021 da Salvatore Lenzo, ai danni di Gianpaolo Stracuzzi, colpito con un pugno all’esterno di un pub di Sant’Alessio Siculo, quale esecutore materiale su mandato dei fratelli Pitasi e dietro corrispettivo di una dose di sostanza stupefacente da 20 euro. A Lenzo, però, non viene addebitata l’accusa di atti persecutori in quanto “a suo carico non appaiono configurabili i gravi indizi non risultando dimostrato che fosse consapevole del fatto che tale specifico episodio rientrasse nel più ampio e risalente disegno persecutorio di coloro che egli stesso definisce ‘sicari’ e ‘mandanti’”. Contestati poi una decina di episodi di spaccio e cessioni di droga (cocaina, crack, marijuana) ai fratelli Pitasi, a Macrì (due), Micali (due) e Lenzo (uno), tra Forza d’Agrò, Sant’Alessio Siculo, Santa Teresa di Riva, Roccalumera, Taormina, Roccalumera. Le esigenze cautelari
“Deve ritenersi che sussista il concreto ed attuale pericolo, per le specifiche modalità e circostante dei fatti per cui si procede e per la negativa personalità degli indagati, che qualora in libertà possano commettere altri delitti della stessa specie” scrive il Gip Ornella Pastore nell’ordinanza custodiale. “Le ‘specifiche modalità e circostanze del fatto’ costituiscono univoca ‘spia’ in ordine al pericolo di reiterazione. Il pericolo concreto e attuale di reiterazione criminosa va ravvisata alla luce delle circostanze e dell’abitualità a delinquere manifestata. La preoccupante tendenza alla reiterazione delittuosa concretamente dimostrata dagli indagati è chiaramente evincibile dalle modalità e dalla tempistica delle condotte per cui si procede, nonché dai reati da essi precedentemente commessi. L’attualità del pericolo di reiterazione è desumibile anche dal fatto che l’attività è perdurante, e pertanto sussiste il pericolo che i reati continuino, tuttora, a reiterarsi”. Il giudice ricorda che Gabriele Pitasi è già stato condannato in via definitiva per vari episodi di danneggiamento seguiti da incendio, il fratello Davide condannato due volte in via definitiva per stalking e da minorenne per associazione a delinquere e danneggiamento seguito da incendio. Anche Giuseppe Macrì è stato condannato con Gabriele Pitasi e Andrea Micali nel processo Nerone del 2012-2013. “Ne consegue un giudizio di spiccata pericolosità sociale degli indagati correlato ad indifferibili esigenze di cautela, che appaiono adeguatamente fronteggiabili nei confronti dei fratelli Pitasi con la misura della custodia cautelare in carcere - viene sottolineato nel provvedimento - tenuto conto dell’evidente inclinazione e capacità a delinquere concretamente dimostrate, della pervicace insistenza nelle condotte illecite oggetto di indagine, della sprezzante noncuranza delle prescrizioni dell’autorità, del gratuito disprezzo espressamente manifestato nei confronti delle Forze dell’ordine, del peculiare contesto malavitoso che caratterizza i rapporti sociali degli indagati”. Per Macrì Bartolone, Lenzo e Micali è stata ritenuta idonea la misura degli arresti domiciliari: “il numero e la gravità delle condotte contestate rendono manifesta l’inidoneità di misure non custodiali ad impedire che possano essere congegnate e realizzate condotte delittuose simili a quelle per cui si procede rimanendo all’interno delle mura domestiche”.