Il racconto di Mario Praz a Savoca: il macabro "ballo dei morti" nel paesello montano
di Paola Rifatto | 28/01/2018 | STORIA
di Paola Rifatto | 28/01/2018 | STORIA
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Il centro storico di Savoca e Mario Praz
“Il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo. Se si trattasse solo di spazio il viaggio d’America avrebbe facilmente il primato …”, ma in Sicilia, “… il retroscena storico è profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il viaggio perfetto.” Così Mario Praz, (Roma 1896 – Roma 1982) saggista, critico d’arte e di letteratura, viaggiatore, nel racconto “Sicilia, circo e cimitero”, in cui descrive le escursioni a Piazza Armerina e a Savoca, effettuate nel 1956. Il testo, già pubblicato sul quotidiano “Il Tempo” in data 8 gennaio 1957, con il titolo “Il circo dei vivi e il ballo dei morti”, e in “Bellezza e bizzarria” (Milano, 1960), chiude l’ultimo lavoro a cui si dedicò Praz: “Il mondo che ho visto” (Milano,1982), vasta scelta dai suoi scritti di viaggio. Lo scrittore si recò a Savoca dopo la visita a Piazza Armerina, dove in quegli anni era stato portato alla luce l’intero complesso monumentale della Villa del Casale: “Con la mente ancora intronata dalla violenta esaltazione della vita fisica intravista a Piazza Armerina mi capitò il giorno dopo di vedere un tutt’altro spettacolo, che con quello della Villa o Palazzo dello sport del basso impero offriva uno di quei contrasti per cui la Sicilia è famosa.” Queste le sue impressioni. “Savoca è un paesello montano che sorge pochi chilometri entro terra tra Taormina e Messina; le case lebbrose, decrepite, seguon la costa dei poggi, terminano su un colle ai piedi delle frastagliate rovine d’un castello e a un calvario, e sul colle opposto alla chiesa dei Cappuccini a cui si sale per una cordonata tra i cui sassi cresce l’erba, simile a tanti altri accessi a chiese di quell’ordine.” Il suo sguardo si allarga poi al paesaggio circostante: “Sotto il cielo plumbeo, i poggi e le balze boscose, quel giorno, si coloravano di verdazzurro: tra due pendici si vedeva il letto del torrente Agrò, più oltre la vista s’apriva sul mare: il luogo aveva un’aria appartata, quasi incantata, come se tutte quelle case fatiscenti si fossero a un certo momento irrigidite sull’orlo della dissoluzione. O così parve a noi dopo che fummo discesi per una botola nella cripta della Chiesa dei Cappuccini”. Mentre le decorazioni musive della Villa Romana avevano suscitato in Praz l’impressione di un “immenso circo fissato con un' arte violenta”, la discesa nella cripta gli spalanca davanti agli occhi uno spettacolo totalmente diverso: un cimitero di corpi mummificati. Lo scrittore lo descrive così: “Immaginate uno stanzone rettangolare con tante nicchie lungo le pareti, e in quindici di queste nicchie, allineati come sentinelle nelle loro garitte, sostenuti dal fil di ferro legato al collo e assicurato a un arpione nel muro, cadaveri mummificati, nei vestiti stessi che portarono nella vita, vestiti a brandelli, lunghi gilè del Settecento diventati squamosi come il tegumento delle cicale di mare, marsine una volta vivaci di colore, ora aride, lacere, svanite, e vesti e residui di pelle mummificata saldati insieme e insieme gonfiati e risecchiti e coperti di polvere e ragnatele nel corso degli anni.” Dopo aver “fotografato” le “mummie” e il loro abbigliamento si sofferma sui particolari: i volti, “…quale con la scatola cranica scoperchiata ma col viso come imbottito d’una pelle gessosa, con palpebre gonfie su occhi ciechi; quale con orbite dilatate come occhi sbarrati senza sguardo; quale col viso come aggrinzito da una vampata, quale col mento alzato e la bocca aperta a un urlo inaudibile, e costui era un avvocato, con ancora in capo la berretta della sua professione; quale rigido nelle sue vesti talari, d’un colore violaceo cupo, l’arciprete, il solo che sia protetto da una teca di vetro; l’ultimo dell’ Ottocento inoltrato, ha il volto nascosto da una tuba inclinata in avanti, come se uscisse brillo da una ribotta. “, e infine le mani: “…. coperte dalla loro pelle secca come da guanti incartapecoriti, mutile di qualche dito, o addirittura monche, o divenute grinzosi artigli biancastri che si serrano su un ventre irrigidito in una colica secolare.” L’impressione che Praz ne ricava è di uno “…spaventoso spettacolo di danza macabra…” , che gli richiama alla mente il ciclo di affreschi “Scene di scheletri viventi”, realizzato da Paolo Vincenzo Borromini, nella chiesa di Santa Grata a Bergamo. Certo, commenta lo scrittore, il tipo di civiltà che spinse quei gentiluomini e quei prelati dal Seicento all’Ottocento inoltrato, a farsi acconciare così per l’eterno riposo, era al polo opposto di quell’altro tipo che più di dieci secoli prima aveva ispirato la sfrenata orgia fisica degli abitatori della Villa di Piazza Armerina. Come Fabrizio Clerici, l’artista che era stato a Savoca nel 1952 e aveva rappresentato nel ciclo pittorico “Le Confessioni palermitane” il contrasto tra il trionfo macabro della morte (le mummie) e la sensualità (le dame serpottiane), così Mario Praz coglie emblematicamente l’essenza dell’isola nel contrasto tra lo spettacolo della Villa del Casale (esaltazione della vita) e quello della cripta dei Cappuccini (messa in mostra della morte) e, dopo aver tanto visto, dall’Europa all’Oriente, dall’America all’Australia, finisce con il trovare in Sicilia “il viaggio perfetto”.