Domenica 05 Maggio 2024
La clamorosa rivolta di 532 proprietari e la missiva di una di loro, Bianca Caminiti


La crisi agrumicola degli Anni '30: la protesta della zona jonica e quella lettera al Duce

di Paola Rifatto | 06/02/2022 | STORIA

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Bianca Caminiti al centro alla "Giornata della fede" del 1935 (foto fornita da Carmela Zappalà)

Nella zona jonica messinese, le principali colture della prima metà dell’800, vigneti ed uliveti, intorno al 1870 cominciano ad essere sostituite dalla coltivazione degli agrumi, molto più redditizia: infatti due ettari di terreno coltivati a limoneto “danno la rendita di 10 ettari a vigna, di 15 ad olivi, di 50 a pascolo” (Comizio Agrario di Messina). La coltivazione dei limoni diviene ben presto la più importante e l’Annuario dell’Agricoltura Italiana del 1930  definisce “degni di rilievo… i vasti agrumeti della riviera orientale di Messina in gran parte destinati alla produzione forzata dei verdelli…”. Il prodotto viene esportato in prevalenza attraverso il porto di Messina, prima piazza d’Italia e del Mediterraneo: la principale corrente d’esportazione dei limoni è diretta verso la Germania, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, vendite assai rilevanti si effettuano anche in tutti i paesi dell’Europa Centrale ed Orientale, soprattutto Austria, Cecoslovacchia, Francia, Svizzera, Polonia ed Ungheria. (Annuario dell’Agricoltura Italiana 1930). Nel 1930 in provincia di Messina la produzione di limoni è di 1.800.000 quintali e il prodotto viene esportato o destinato alla produzione di citrato di calcio. Il citrato in parte è utilizzato dalle fabbriche italiane di acido citrico, in parte esportato, ma l’aumento del prezzo, che nel 1928 passa da 1650 a 2125 lire il quintale, provoca una dura reazione all’estero. Negli Usa la Pfizer comincia a produrre acido citrico dallo zucchero e l’esempio è seguito dalla belga Tirlemont: ciò provoca il crollo del prezzo del citrato, che nel 1934 scende a 100 lire il quintale, e contestualmente il crollo dell’industria siciliana dei derivati (citrato ed essenze). Il governo fascista cerca di rispondere alla crisi, promuovendo il collocamento dei limoni nel mercato interno, ma manca un sistema di distribuzione, soprattutto nei piccoli centri. Molti commercianti e proprietari si attivano, a proprio rischio e pericolo, per spedire all’estero la merce; ma l’Ine (Istituto nazionale per l’Esportazione, istituito nel 1926) per evitare l’arrivo sui mercati stranieri del prodotto di “scarto”, introduce rigidi controlli sull’applicazione delle norme sull’esportazione, affidati a ispettori provinciali.

L’intervento degli ispettori nei luoghi di produzione provoca la clamorosa protesta di 532 proprietari della costa orientale messinese che manifestano il loro disagio con una dettagliata relazione, datata 5 maggio 1933, indirizzata al presidente della Federazione provinciale fascista agricoltori e, per conoscenza, al prefetto di Messina. Riportiamo alcuni stralci, che evidenziano il rifiuto delle innovazioni imposte dall’esterno, in un momento di crisi senza precedenti: “La grande massa degli agrumicoltori, che ha visto in pochissimo tempo ridursi il reddito in modo irrimediabile oltre che per la crisi del limone d’inverno, per il mal secco che devasta inesorabilmente gli agrumeti, spera nella raccolta dei verdelli, che deve urgentemente vendere, per poter ottenere un ricavato che metta in condizione di far fronte, anche in parte, ai propri impegni.” I produttori “…prima di vedersi ridotti in uno stato irreparabile, lungi dal chiedere aiuti o sovvenzioni di qualsiasi genere, sentono il dovere di prospettare la situazione e di fare appello a quel senso di comprensione e di benevola considerazione dell’On. S.V. perché in tempo utile intervenga presso l’Ine e presso le superiori gerarchie affinché vogliano compenetrarsi in questo stato di cose e dare disposizioni possibilmente telegrafiche, per la sospensione di qualsiasi innovazione che porti aggravio di spese e, nei limiti del possibile, si faciliti l’esportazione di un prodotto la cui vendita può mettere gli agrumicoltori in condizione di vivere e di far vivere gli operai con i quali hanno interesse comune di esistenza, tollerando quei lievi difetti, dovuti specialmente quest’anno alle persistenti avversità atmosferiche, e che non pregiudicano affatto la resistenza e la conservazione del frutto.” (Archivio di Stato Messina, Prefettura, busta 229). Il questore Lauricella, con nota del 18 maggio 1933, riferisce al prefetto che  “…da qualche tempo a questa parte il malcontento che esisteva nel ceto agrumario si è accentuato per la mancata vendita dei limoni, determinata principalmente dal fatto che i rappresentanti dell’Ine, addetti al controllo degli agrumi, hanno apportato nel sistema di raccolta e trasporto degli agrumi delle innovazioni che si rendono inattuabili.” (Archivio di Stato Messina, Prefettura, busta 226)

In questo contesto, di forte reazione della società locale, si inserisce la lettera che Bianca Caminiti, proprietaria di agrumeti di Santa Teresa di Riva, invia il 6 marzo 1933 a Mussolini: “Il nostro prodotto pur sì necessario non ha più valore, le restrizioni incomprensibili, le innovazioni senza discernimento sul commercio degli agrumi, la incompetenza ridicola degli ispettori che presiedono alle spedizioni, gettano lo scoraggiamento in ogni classe sociale. Lo stato di abbattimento e di miseria in cui viviamo è inenarrabile, le tasse aumentano soffocanti e senza scampo, le banche non danno quell’aiuto che si dice. La propaganda per l’agricoltura è un’assurdità quando mancano i mezzi, la disoccupazione aumenta e le terre rimangono incolte. Quando ci si toglie l’unico mezzo di lavoro e di benessere, cosa rimane di una popolazione laboriosa e sobria se non lo squilibrio materiale e morale? Se venisse V. Eccellenza a constatare de visu le nostre condizioni… Direi che è doveroso per un capo passare in mezzo al popolo, accoglierne le lagnanze e farsi un’idea dei bisogni più urgenti. Non chiediamo altro noi, fateci lavorare come prima il prodotto prezioso del nostro suolo.” Come rileva lo storico Salvatore Lupo  (“Il Giardino degli Aranci, 1990, pag. 270-271) “qui il rituale appello al capo perché scenda dal suo palazzo si accoppia con un inusuale richiamo ai suoi doveri e con una ricognizione spietata dei problemi tipica di chi in un recente passato era stato abituato a contare e che ora vede passare sopra la propria testa ogni decisione.” In effetti Bianca Caminiti appartiene ad una famiglia abituata a contare: il padre Francesco Paolo ha ricoperto il ruolo di sindaco di Santa Teresa tra il 1889 e il 1904; il nonno, Giuseppe, ha partecipato attivamente alla rivoluzione del 1848 contro i Borboni ed è stato il principale artefice dell’autonomia della “Marina di Savoca”. Ma è anche una imprenditrice molto attiva: nel 1927, insieme alla sorella Jolanda, chiede ed ottiene dal Ministero dei Lavori Pubblici la concessione di derivare acqua dal subalveo del torrente Savoca,  in località Stracuzzi, in territorio del comune di Santa Teresa di Riva, per l’irrigazione di dieci ettari di terreno di proprietà ed eventualmente per  terreni di altri proprietari. (Bollettino Ufficiale del Ministero dei Lavori Pubblici, 1927, pag. 2753). Nel  1929 viene invece accordato alle due sorelle un sussidio di 6.000 lire per la spesa occorrente alle ricerche di acqua (Bollettino Statistico del Ministero Lavori Pubblici, n. 4, 1929, pag. 73). 

Bianca Caminiti, segretaria del Fascio femminile di Santa Teresa di Riva, ha vissuto gran parte della sua vita nella dimora di famiglia, il Palazzo Caminiti edificato nel 1854 sul corso Regina Margherita in zona Bucalo. Nel 1990 l’edificio e l’attiguo “orto a mare” sono stati sottoposti dall’Assessorato regionale ai Beni culturali a vincolo di interesse storico e architettonico (D.A. n. 1546 dell’11/7/1990), in quanto importante testimonianza della locale cultura architettonica e urbanistica del secolo XIX, ma il Comune di Santa Teresa di Riva ha fatto ricorso, perché il vincolo riguardava anche l’area interessata alla costruzione dell'attuale piazza Marina Militare Italiana e il Tar di Catania ha concesso la sospensiva “limitatamente ai soli terreni destinati a piazza” (ordinanza n. 68/1990). La controversia si è chiusa nel 2008, quando il Tribunale amministrativo regionale ha deciso di accogliere il ricorso del Comune (sentenza n. 857/2008) e l’Assessorato ha disposto l’annullamento del decreto di vincolo non solo sul terreno ma anche sull’edificio (D.D.S. n. 132 del 4/2/2011). Ma questa è un’altra “storia”… 


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